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venerdì 19 febbraio 2010

L'INCOGNITA CARBURANTI E LE FRONTIERE DEI BIOCOMBUSTIBILI


L'INCOGNITA CARBURANTI E LE FRONTIERE DEI BIOCOMBUSTIBILI

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Prima fu il bioetanolo, ideato dal giapponese Yumi Someya; oggi è la jatropha, un arbusto velenoso tipico delle zone aride di Asia e Africa. Fra business e bizzarie, la scienza cerca una seria alternativa ai derivati del petrolio

Era il 1992 quando il giapponese Yumi Someya sperimentò con successo la possibilità di produrre carburante grazie all'olio da cucina riciclato. Nasceva così il Vegetable Diesel Fuel (VDF). Un'idea tanto originale quanto remunerativa per il giovane Someya, che oggi è uno dei più importanti businessman del Sol Levante. Basti pensare che di recente ha annunciato il cosiddetto Tokyo Yuden 2017, un progetto che prevede il riciclo dell'intera quantità di olio da cucina utilizzato nella capitale giapponese.
Va ricordato però che l'idea di produrre carburante ecosostenibile risale almeno agli anni Settanta.

Quando la crisi economica internazionale indusse il governo brasiliano a investire sulla produzione di propellente derivante dalla lavorazione della canna da zucchero, ovvero il bioetanolo. Un'idea che oggi permette al Brasile di soddisfare parte della domanda interna e di esserne il principale esportatore.
Certo, è plausibile pensare che né il governo brasiliano né Yumi Someya immaginavano di ottenere tanta fama e ricchi introiti nell'arco di pochi decenni. L'imprevista e straordinaria crescita economica di India e Cina ha generato in poco tempo un forte aumento della domanda di petrolio. Quest'ultimo è destinato a esaurirsi nell'arco di pochi decenni. E nella disperata ricerca di una fonte alternativa, i principali paesi industrializzati hanno iniziato a investire massicciamente sui combustibili derivanti dalla fermentazione non solo della canna da zucchero, ma anche dei cereali e degli oli vegetali.
Ma, i biofuel possono davvero sostituire il petrolio? E quali sono le conseguenze di una loro intensa produzione?

Occorre rilevare che la comunità e gli esperti internazionali esprimono opinioni del tutto contrastanti in materia.
Per molti si tratta di un vero crimine contro l'umanità, per altri il vero crimine è non investire su questa nuova frontiera. La realtà è che il principale limite alla produzione su larga scala di combustibile di natura vegetale è quello spaziale. Sono necessarie vaste aree agricole e fertili da sottrarre evidentemente alla produzione alimentare. Peraltro, per produrre un litro di biocarburante occorrono in media 4.000 litri di acqua. Mentre per produrre 100 litri di etanolo servono 240 chili di mais: quanto basta per soddisfare il fabbisogno energetico di un essere umano in un anno.
A questo occorre aggiungere le conseguenze catastrofiche sul sistema alimentare mondiale, o meglio dei paesi in via di sviluppo. Secondo i dati delle Nazioni Unite nel corso del 2008 si è registrato un aumento a livello globale del prezzo del riso del 75% e del grano del 120% rispetto al 2007.

Le cause sono in primis la corsa all'oro verde e la crisi dei mutui immobiliari statunitensi, che hanno contribuito a dirottare ingenti investimenti speculativi verso la Borsa di Chicago (la più importante al mondo per questo scambio di contratti). Inoltre i principali paesi del G8 continuano a finanziare la produzione di agrocombustibili. Negli Stati Uniti un terzo della produzione di mais è destinata alla produzione di bioetanolo, e tra il 2006 e il 2012 sono previsti sussidi al settore per una cifra che rischia di sfiorare i 100 miliardi di dollari.
È evidente che il prezzo più alto lo pagano i paesi poveri. Non occorrono dunque particolari studi e riscontri per capire che una riduzione delle terre destinate alla produzione alimentare e un aumento dei prezzi possono avere delle conseguenze devastanti. Non è certo un caso che, secondo gli ultimi dati presentati dalla Fao, il numero di affamati nel mondo abbia registrato un netto aumento rispetto al 2006, passando da 850 milioni di persone a oltre un miliardo all'inizio di quest'anno.

A fronte di così tante critiche, la risposta del settore agro-energetico sembra essere la Jatropha. Si tratta di una specie vegetale non commestibile e in grado di crescere su terre meno fertili o semi-aride.
L'India ha incluso la Jatropha nel programma per l'indipendenza energetica, prevedendo entro il 2012 di piantarne 160 milioni soltanto nello Stato di Chattisgarh. Non è un azzardo prevedere che nel medio periodo, quando la domanda di agrocarburanti aumenterà, le aziende coltiveranno la Jatropha anche nelle zone fertili per massimizzare i profitti. In sintesi. I biofuel non possono rappresentare l'unica via alternativa al petrolio, né tantomeno la principale. In base alle tecnologie attualmente disponibili, una produzione su larga scala presenta molte controindicazioni e pochi vantaggi. Questi ultimi riguarderebbero soltanto i paesi industrializzati, condannando quelli in via di sviluppo al loro insostenibile presente.
Di contro, su base regionale la produzione è possibile. In questo caso, però, è necessario distinguere tra biocarburanti prodotti da immense colture alimentari e quelli derivanti dal riciclaggio di materiale organico. Insomma, è la differenza tra Brasile e Yumi Someya, e non c'è dubbio, che la strada segnata dal giovane giapponese sia quella da seguire.

Giuseppe Terranova da Terra

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