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lunedì 11 ottobre 2010

«The Cove», documentario sulla mattanza dei simpatici amici marini: girato come fosse «Ocean’s Eleven»


NON SI UCCIDONO COSÌ I DELFINI
«The Cove», documentario sulla
mattanza dei simpatici amici marini:
girato come fosse «Ocean’s Eleven»


di Dario Zonta


Il cinema documentario deve liberarsi dalla dittatura del referente. Dittatura del referente, ovvero la cogente forza del contenuto sulla forma, la potenza ricattatoria del tema sulla possibile qualità del linguaggio cinematografico e dell’idea di messa in scena. Spesso, molti commentatori, sono caduti in questa trappola, e, abbagliati dalla «necessità» di un tema, hanno perso di vista la modalità della sua esposizione. È un atteggiamento figlio della tradizione televisiva del documentario, che va dal reportage al ritratto, spesso rozzo, ma efficace perché permette di scoprire i misteri del mondo oppure porta alla nostra pigrizia la conoscenza di fatti incredibili. Se il film è di denuncia, ecco che tutti i paletti cadono. The Cove di Louise Psihoyos è un documentario di denuncia sulla mattanza dei delfini in Giappone che tenta, senza molto successo, di riscattarsi dal «referente» attraverso la spettacolarità. Distribuito ora in homevideo dalla Feltrinelli, in un’edizione intensa e partecipe, con tanto di ampio libro che approfondisce i temi del film, curato da Caterina D’Amico, The Cove si muove sulla scia dei documentari americani d’effetto e d’azione (anche per questo ha vinto l’Oscar), che cerca di impaginare la sua indagine in una forma cinematografica accattivante come fosse un thriller d’azione, come fosse una nuova puntata di Ocean’s Eleven. LA MATTANZA Un gruppo di volontari e persuasi, capitanati da Ric O’ Barry (attivista contro la caccia ai delfini, un tempo allenatore del delfino della serie televisiva Flipper), cerca di penetrare nella baia a Taiji, nella prefettura di Wakayama, a sud di Tokio, per riprendere la mattanza dei delfini. L’impresa è tutt’altro che semplice, vista l’ostilità manifesta dei pescatori, della polizia e della mafia del luogo. Armati di telecamere digitali a infrarossi, di meccanismi sofisticatissimi (studiati con un ex ingegnere della società di effetti speciali di Spielberg) per piazzare delle video camere dentro rocce finte, e ancora con sonar e telecamere subacquee, i nostri riescono a riprendere la carneficina di delfini, uno spettacolo raccapricciante. Si tratta di un film a tesi e di denuncia: i delfini sono tra i mammiferi più intelligenti e sensibili, ed è orrendo uccidere i delfini. Tutto giusto. Eppure lo stesso stupore dovremmo averlo anche per la caccia al tonno o al pesce spada (documentata all’epoca da Vittorio De Seta in un film dal sapore antropologico). E invece no, perché tonni e pesci spada non sono così sensibili come i delfini (e anche perché la nostra cultura alimentare li ricomprende)! Allora, di cosa parliamo quando parliamo di uccisione di animali a scopo alimentare? Il discorso, in verità, è molto complesso e spigoloso, perché comprende vari ambiti, dall’etica alla tradizione culturale, e non è certo con uno spettacolare film d’azione americano che se ne esce convinti. Certo indignati, quando alla fine dovremmo vergognarci per tutto quello che viene fatto contro gli animali, non solo i delfini dagli occhi dolci.


dariozonta@gmail.com

10 ottobre 2010

pubblicato nell'edizione Nazionale (pagina 42) nella sezione "Culture"


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